Dieudonné attraverso il prisma della sinistra bianca o come pensare l’internazionalismo domestico?

Di rado si è visto un gruppo che ha promesso fiducia e lealtà eterne a delle organizzazioni che non fanno i loro interessi. Da questo punto di vista che è un punto di vista materialista, le popolazioni discendenti dall’immigrazione e dei quartieri popolari non hanno nessun motivo per rimanere fedeli alla sinistra. E hanno ragione. Il loro torto non è di essersi liberati dalla sinistra. Il loro torto e di essere passati da un padrone all’altro. Di cambiare solo di tutore. Il loro torto ora, è di scegliere la facilità. Di disertare le strade dell’autonomia.

Penser l’émancipation, conferenza plenaria di chiusura, Nanterre, del 22 febbraio 2014

Houria Bouteldja, membro del Parti des Indigènes de la République (PIR)

Prima di cominciare, permettetemi di fare un piccolo preambolo in quattro punti :

1/ Vorrei avvertirvi che ciò che sto per dire non è di sinistra. Non è neanche di destra. Ma non per questo è alieno. Il mio discorso è decoloniale. Mi viene da dirvi che sarete voi a decidere alla fine del mio intervento se è di sinistra o no. In altri termini se potete farlo vostro, se pensate che potrà far parte del vostro programma politico della sinistra radicale.

2/ Vi invito anche a tenere a mente che io sono un’indigène della Repubblica, il che consiste in uno status politico e sociale, che parlo a partire dell’esperienza storica e sociale di un soggetto coloniale. Questa posizionalità introduce nel dibattito e nella lotta una dialettica e dei conflitti paradossali che evidenziano un’altra linea di scissione che è la razza e la colonialità del potere e che spesso scombussolano la divisione destra/sinistra. È questo scombussolamento che cerchiamo di spiegare con il concetto di « spazio/tempo », ma non ho il tempo di sviluppare qui.

3/ Aggiungo che appartengo ad una organizzazione politica e che all’interno di questa riflettiamo soprattutto in termini di problemi politici, di rapporti di forza, di potere, di strategia e non in termini di morale astratta o di principio.

4/ Infine, tenete a mente questa citazione di Sadri Khiari: « Poiché è la partner indispensabile degli indigènes, la sinistra è la loro principale avversaria. »

In un documentario recente di Mustapha Kessus intitolato Français d’origine controlée (Francesi di origine controllata o DOC) su France 2 in occasione dei trent’anni della Marcia per l’uguaglianza (Marche pour l’Égalité), e che traccia il percorso degli militanti discendenti dell’immigrazione, una delle intervistate, Hanifa Taguelmint spiega: “Nell’83 ci siamo offerti alla Francia. Ci siamo offerti a lei. Sono sicura che se quel giorno ci avessero detto, ‘dai! mangiate tutti il prosciutto!’, non so se non l’avremmo fatto. Ci siamo offerti alla Francia. Lei non ci ha voluto. Ma eravamo veramente pronti… Il motto francese era per noi il migliore al mondo. Il più bello. È stata un’occasione fallita, veramente fallita. La Storia ha buggato in quel momento particolare. Siamo venuti a dire alla Francia : ‘Ti amiamo, amaci!’. E siamo ritornati a casa con la coda fra le gambe. E quindi penso che sia successo qualcosa d’importante”. Fine di citazione.

Vorrei insistere su due idee forti di questa citazione:

1/ “Eravamo pronti a mangiare maiale”. Oggi, questa affermazione sarebbe stupefacente. Nessun musulmano, indipendentemente della sua pratica religiosa, oserebbe, vorrebbe o penserebbe nemmeno proferire quel genere di discorso. Un tale progetto d’integrazione/assimilazione sarebbe vissuto come alto tradimento, come un’alienazione, una rinuncia grave di se stessi, della propria Storia, del proprio patrimonio culturale. Dopo trent’anni, viviamo in tutt’altro mondo.

2/ “Siamo venuti a dire alla Francia ‘ti amiamo, amaci’”. Traduco: noi che per te non siamo legittimi, noi che siamo dei bicots1, noi che non siamo di vera stirpe francese, facci diventare francesi. La “Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo”, in effetti, non era una lotta per l’uguaglianza dei salari, né per l’aumento del reddito minimo (Smig), né per le pensioni. Era una lotta di soggetti coloniali che volevano essere trattati come cittadini legittimi. Semplicemente diventare francesi come gli altri. Ciò evidentemente doveva iniziare con la fine immediata delle violenze e dei crimini della polizia. Non siamo la selvaggina degli sbirri – dicevano! E non l’hanno ottenuto, perché al posto di una cittadinanza piena hanno ottenuto di essere immigrati più a lungo. Hanno guadagnato il permesso di soggiorno di 10 anni. E questa non era una delle loro richieste. La vera richiesta era di “essere amati”. E posso dirvi che anche oggi è così. Potete immaginare come me ne rammarico. Ma la sinistra radicale, che sospetta di tutto ciò che non sta nell’ambito dei rapporti socio-economici, tutto questo non lo capisce. Invece, Alan Soral l’ha capito. E, a modo suo, propone ai discendenti dell’immigrazione post-coloniale di diventare i veri francesi che sognano di essere. E un segmento non indifferente di questa gioventù ci crede. Evidentemente, lui pone le sue condizioni: la difesa della nazione e della bandiera, un islam patriottico e virile. Ma allo stesso tempo risponde a un bisogno sociale centrale. E aggiungo che questa è la migliore offerta fatta dal campo politico bianco. Non che io sia d’accordo. Ma bisogna ammettere che il campo politico bianco non propone nessun’altra offerta politica. Inoltre, quest’offerta di Soral arriva dopo trent’anni di politica non molto gloriosi prima della sinistra istituzionale e poi anche della sinistra radicale.

Ma cosa è successo tra la generazione degli immigrati che erano potenzialmente dei mangiatori di maiale ma ancorati alla sinistra e gli immigrati che non mangiano maiale ma che si spostano a destra? Abbiamo appena festeggiato il trentesimo anniversario della “Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo”. Ma la festa non c’è stata. I settori autonomi dell’immigrazione hanno sprecato l’occasione dell’anniversario. Un anniversario che avremmo dovuto festeggiare in pompa magna perché celebrava l’ingresso con scasso dell’immigrazione nel “campo politico bianco”; perché celebrava l’inizio dell’esistenza politica dei francesi post-coloniali e perché celebrava i primi colpi di ariete contro la repubblica bianca e immacolata.

Tuttavia, alcuni settori dell’immigrazione ci hanno provato. Ma senza lustri. Tuttavia, il PS ci ha provato, strumentalizzando l’affaire Toubira dell’autunno scorso. Ma l’anti-razzismo etico alla SOS racisme, utilizzato fino all’osso, è all’agonia. In effetti, da trent’anni assistiamo a una deriva a destra della vita politica francese. Conseguenza: la maggior parte dei rappresentanti ufficiali dell’anti-razzismo accompagna questo movimento e ha sostenuto la legge razzista “contro i segni religiosi nelle scuole”.

L’anniversario legittimo dunque non c’è stato. L’anniversario recuperato neanche. Ma le candele sono state spente. E da chi? Da Diedonné e da Farida Belghoul! Trent’anni dopo l’apparizione spettacolare degli indigènes sulla scena politica francese assieme ai loro amici di sinistra, rieccoci. Altra comparsa nell’arena politica. Sempre spettacolare, ancora fragorosa. Ma questa volta assieme ai “nostri amici”, non più di sinistra, e neanche di destra, ma di estrema destra. Questo si chiama un dito medio. Un grande “vaffa” alla sinistra. O se volete una quenelle. Quest’oscillazione verso destra è, contro ogni apparenza, un movimento di liberazione. Ci si libera di una stretta che ci ha soffocato, e anche frantumato. Di rado si è visto un gruppo che ha promesso fiducia e lealtà eterne a delle organizzazioni che non fanno i loro interessi. Da questo punto di vista che è un punto di vista materialista, le popolazioni discendenti dall’immigrazione e dei quartieri popolari non hanno nessun motivo per rimanere fedeli alla sinistra. E hanno ragione. Il loro torto non è di essersi liberati dalla sinistra. Il loro torto e di essere passati da un padrone all’altro. Di cambiare solo di tutore. Il loro torto ora, è di scegliere la facilità. Di disertare le strade dell’autonomia. Di certo, noi del PIR, sappiamo quanto sia immorale e suicidario confondere la destra e la sinistra, ma soprattutto quanto lo sia confondere la sinistra radicale e l’estrema destra. Sappiamo che questi ultimi hanno organizzato e organizzeranno in futuro spedizioni punitive contro i neri e gli arabi, saccheggeranno moschee, profaneranno cimiteri e difenderanno la supremazia bianca. E non dimentichiamo che, nonostante il suo paternalismo, la sua islamofobia, il suo eurocentrismo, in una parola la sua appartenenza al campo politico bianco, la sinistra radicale si definisce attraverso progetti di emancipazione, e che è sempre stato affianco dei sans-papiers, e dalla parte delle lotte dell’immigrazione contro l’imperialismo. E quindi come dicevo nel preambolo: “Poiché è la partner indispensabile degli indigènes, la sinistra è la loro principale avversaria”. Tranne che il PIR è il PIR, e gli indigènes sociali sono gli indigènes sociali. Per lo più, non si sono organizzati perché sono stati abbandonati e più precisamente perché, da una parte sono stati esclusi dal campo politico bianco e dall’altra perché non gli hanno permesso di auto-organizzarsi.

1/ Sul versante della sinistra istituzionale, c’è stato: la svolta liberale del PS degli anni ’80; l’avvento delle idee molli, dell’umanesimo astratto, dell’anti-razzismo etico incarnato da SOS-racisme, che hanno preso il posto delle ideologie frontali e irriducibili; l’ascesa del Front National; la prima e la seconda guerra del Golfo; le affaires del velo e poi le leggi che hanno ratificato il razzismo di stato islamofobo; l’impunità della polizia. C’è stato lo scasso dei movimenti autonomi e la recuperazione sistematica delle élites dell’immigrazione; il controllo statale delle moschee; la legge del 23 febbraio 2005 che riconosce il lavoro positivo dei francesi nelle colonie; il sostegno disinibito a Israele; la continuazione della Françafrique.

2/ Sul versante della sinistra radicale, c’è stato: una connivenza e una complicità di una sua parte con l’anti-razzismo etico; un’ostilità contro i movimenti autonomi dell’immigrazione; una connivenza e una complicità attiva con l’islamofobia; una focalizzazione sul fascismo a discapito del razzismo strutturale e della critica della supremazia bianca che attraversa la sinistra radicale; la centralità della Shoah a discapito della storia coloniale e della schiavitù; il clientelismo nei quartieri popolari (soprattutto nei comuni a guida PCF); l’anti-sionismo bianco, cioè un anti-sionismo che dà solidarietà ai movimenti di resistenza che gli assomigliano (FPLP per esempio) e che disprezza i resistenti che non gli assomigliano (Hamas al tempo degli attacchi a Gaza).

3/ Sul versante dell’immigrazione e dei quartieri: le rivolte di Vaux-en-Velin della fine degli anni ’80; quelle del 2005; le discriminazioni razziali sistematiche; un continuo processo d’impoverimento e di precarizzazione dei quartieri popolari (con un tasso di disoccupazione da 4 a 5 volte più elevato); i flagelli della droga e dell’AIDS che hanno decimato migliaia di figli di immigrati e traumatizzato migliaia di famiglie; la continuazione dei crimini della polizia; la sistematizzazione dei controlli au faciès (secondo criteri basati sulla faccia); una violenza islamofoba incredibile dall’11 settembre; delle campagne ideologiche di inaudita violenza che accusano gli indigènes di anti-semitismo, di sessismo, di omofobia, di produrre l’insicurezza e d’insudiciare l’identità nazionale.

Di fronte all’incapacità della sinistra istituzionale e della sinistra radicale a tener conto delle rivendicazioni dei quartieri popolari, di fronte al sabotaggio istituzionale contro l’organizzazione politica di quei quartieri, una parte non indifferente dei discendenti degli immigrati si sono dapprima rifugiati da Tariq Ramadan che proponeva un’alternativa al fallimento dell’integrazione repubblicana. In sostanza, diceva: “voi siete completamente francesi ma non siete obbligati a rinunciare a voi stessi. Lottate per i vostri diritti in quanto francesi, ma difendete con i denti la vostra dignità che non è in vendita”. Non vorrei qui rievocare un ricordo spiacevole, doloroso e carico di conseguenze: l’accoglienza che gli è stata riservata dalla sinistra e più precisamente dalla sinistra radicale mentre cercava invano di avvicinarsi al Forum Sociale Europeo. Gli è stata dichiarata una guerra spietata. Salvo qualche eccezione, rari sono stati quelli che l’hanno difeso e più precisamente cercato di comprendere il potenziale politico che rappresentava. Se mi lasciate l’espressione: questa sinistra non è neanche stata capace di essere opportunista. In altri termini, non ha saputo essere politica. Perché per poter combattere politicamente Tariq Ramadan, bisognava almeno proporre un’alternativa. Ma che proponevano in cambio quelli che lo accusavano di essere il diavolo? Niente. O meglio si. C’erano due tipi di proposte: “l’importante è la lotta di classe” o altrimenti: “bisogna aver fiducia nei valori della Repubblica”. No comment. E siccome non c’è stata alternativa a Tariq Ramadan, è in qualche modo Dieudonné che prenderà il suo posto. Oggi, l’offerta politica di Diedonné e Soral è quella che corrisponde in modo più preciso al malessere esistenziale e politico delle seconde e terze generazioni dei discendenti dell’immigrazione: la riconoscenza di une cittadinanza piena e intera nell’ambito dello Stato nazionale, il rispetto della personalità musulmana con i limiti e le condizioni poste da Soral, la designazione di un nemico, l’ebreo in quanto ebreo, e l’ebreo in quanto sionista, sia come incarnazione dell’imperialismo che come privilegiato. Colui che occupa un posto particolare nel cuore dei bianchi, posto che molti indigènes gli contestano. Poiché sognano di diventare i favoriti del re ma senza rimettere in discussione la legittimità di tale re, e cioè il bianco. Come lo crediamo noi del PIR: “L’ideologia spontanea degli indigènes è l’integrazionismo”. Infine, se Soral funziona è anche perché riabilita la virilità arabo-musulmana minata dal colonialismo e dal razzismo – non starò qui a ricordare un altro episodio, quello di Ni Putes Ni Soumises o delle Femens. Non dimentichiamo che quelli che oggi hanno 25 anni e che formano il più grosso dei battaglioni della coppia Diedonné/Soral, avevano tra 13 e 15 anni l’11 settembre, durante il momento d’isteria collettiva contro il velo e contro Tariq Ramadan, della comparsa di NPNS, delle rivolte di 2005 e della seconda guerra del Golfo. Ovviamente tutto ciò lascia dei segni.

Dobbiamo biasimare questi giovani? Sono fascisti? La mia risposta è no! No! Perché le ragioni di queste defezioni sono strutturali. Se in questo paese non esiste un vivaio importante di militanti politici discendenti dell’immigrazione sperimentati, formati, è perché gli spazi politici non esistevano o sono troppo precari perché assicurino la trasmissione della memoria, l’accumulazione del sapere e la sua capitalizzazione. Le lotte rispecchiano la condizione degli immigrati; disparati, precari e senza direzione politica. Non li biasimo. Biasimo quelli che ci hanno escluso dalle loro organizzazioni in nome dell’unità di classe e biasimo quelli che hanno attivamente impedito l’organizzazione autonoma degli immigrati. Infine biasimo – ma gentilmente – i militanti dell’immigrazione che non hanno saputo organizzarsi unitariamente.

Resta il fatto che ora siamo disarmati. Non sono sicura che dovremmo farci prendere dal panico davanti a questo movimento pendolare che sembra trascinare una parte significativa delle popolazioni post-coloniali da sinistra verso destra, o verso l’estrema destra. Non sto dicendo che non sia preoccupante. Dico che bisogna fermarsi e riflettere. Dico anche che forse è un intervento divino che ci spinge a una riflessione collettiva. Oso aggiungere, soprattutto con l’esperienza passata degli appuntamenti mancati, che ora o mai più è il momento di fare politica, poiché viviamo un momento di verità. Ed è ciò che noi PIR cerchiamo di fare nell’incomprensione generale. Vi faccio un esempio:

Quando Manuel Valls ha attaccato Dieudonné e che il caso ha cominciato ad avere le proporzioni che voi sapete, ci siamo ritrovati al PIR tra i fuochi incrociati di due gruppi:

1/ Molti indigènes, neri e musulmani, che esigevano da noi una solidarietà esplicita e pubblica a Diedonné.

2/ I nostri alleati bianchi che esigevano che lo condannassimo in modo definitivo.

Ora, ecco, noi non siamo integrazionisti. E l’integrazione attraverso l’anti-semitismo ci fa orrore allo stesso modo che l’integrazione attraverso l’universalismo bianco o il nazional-sciovinismo. Ci fa orrore tutto ciò che ci integra o meglio che continua la nostra integrazione nella bianchezza, essendo l’anti-semitismo un puro prodotto dell’Europa e dell’Occidente. In quanto decoloniali, era evidente che non potevamo portare sostegno a Diedonné. Tuttavia non potevamo condannare Diedonné nello stesso modo della sinistra bianca. Perché c’è una dimensione che sfugge a questa sinistra e che non sfugge a nessun indigène che ha un minimo di dignità. È ciò che io stessa aveva ricordato durante un’intervista nel 2012: “Per me Dieudonné non è Soral perché Diedonné è un indigène sociale. Non posso trattarlo come tratto Soral. Sono profondamente in disaccordo con le sue scelte politiche: con il fatto che è stato sedotto dalle tesi nazionaliste di Soral e che non conosca assolutamente niente sulla Palestina, sul sionismo; con il fatto che si sia alleato con l’estrema destra. Tuttavia, ho dei sentimenti ambivalenti. Comincerei a dire che voglio bene a Dieudonné; gli voglio bene come gli vogliono bene gli indigènes; capisco perché gli indigènes lo amano. Gli vogliono bene perché ha fatto una cosa importante in termini di dignità, di fierezza indigène, di fierezza nera; lui ha rifiutato di essere il negro domestico. Anche se non ha il buon programma politico in testa, ha un atteggiamento di resistenza”. E aggiungo che molto prima della natura dei suoi alleati, gli indigènes vedono questo. Un uomo in piedi. Troppo a lungo siamo stati costretti a dire: “si buana, si buana”. Quando Diedonné si alza in piedi, guarisce una ferita identitaria. Quella che è causata dal razzismo e che rovina la personalità indigena. Quelli che capiscono il motto Black is beautiful non possono non capire questa dimensione, e insisto, questa dimensione di Dieudonné.

Poiché noi rifiutiamo l’integrazione attraverso l’estrema destra, ma poiché noi ci identifichiamo a questa postura di dignità che rappresenta Diedonné, non potevamo né cedere alle pressioni degli indigènes, né alle pressioni bianche. E abbiamo evidentemente percorso una terza via che esplicitava questa analisi. Per i bianchi l’importante era poter affermare che Dieudonné era un fascista. Per noi, era dire che Diedonné era il prodotto del campo politico bianco e più esattamente della sinistra e delle sue rinunce. E per questa ragione siamo stati boicottati. Il mio scopo qui non è quello di lamentarmi. Voglio soprattutto sottolineare che se siamo stati boicottati dalla sinistra, noi siamo stati soprattutto boicottati dall’estrema destra. Gli amici fascisti di Diedonné e Soral, loro, hanno capito che non eravamo loro amici. Non possiamo che deplorare che la sinistra radicale non se ne accorga. Tuttavia siamo riusciti a fare simbolicamente ciò che qualsiasi movimento dell’immigrazione deve fare: riunire l’opinione indigena. E effettivamente, abbiamo risposto alle attese della maggioranza dei nostri, anche dei più fedeli di Diendonné, perché – passatemi l’espressione – non ci siamo calati le braghe. In altri termini, siamo rimasti, per parafrasare Césaire, degli indigènes fondamentali. Ciò prova che gli indigènes di Francia non sono di destra o di estrema destra. Hanno solo bisogno di un progetto politico.

Je suis un nègre fondamental

A questo punto, vorrei solo dire che abbiamo, voi e noi, dei compiti diversi: noi, PIR o qualsiasi altra organizzazione degli immigrati e dei quartieri, dobbiamo organizzare gli indigènes nell’autonomia. E voi sviluppare quello che Sadri Khiari chiama un “internazionalismo domestico”. Capire che una frazione dell’impero coloniale è oggi nel seno stesso della Francia, che la frattura coloniale/razziale è una divisione strutturale interna al paese colonizzatore e che il momento non è alla solidarietà con gli immigrati e i loro figli ma alla costruzione di alleanze che rispettino le nostre autonomie rispettive. Dovete pensarci come alleati. Non come una popolazione da salvare, ma come un gruppo che partecipa all’emancipazione collettiva e quindi all’emancipazione dei bianchi. Ma per questo bisogna accettarci così come siamo: un gruppo razzialmente e socialmente dominato. Non per forza chiarissimi su molti temi: non chiari sul capitalismo; non chiari sulla lotta di classe; non chiari sulle donne; non chiari sui gay: non chiari sugli ebrei. Come ogni gruppo noi siamo attraversati da mille contraddizioni. Queste devono risolversi in modo dialettico all’interno di grandi insiemi che possano definire un nemico principale comune e rispettando gli spazi/tempi di ciascuno. È ovvio che un progetto che ci metta assieme deve essere un progetto di giustizia radicale per tutti. Un progetto generoso. Un progetto d’emancipazione. Per questo, bisognerà per forza accettare di sporcarsi le mani come lo suggerisce CLR James2!

I movimenti che cercano di “fare uscire gli ebrei da Harlem o dal quartiere sud” hanno una solida base di classe. Sono le reazioni del negro vendicativo che cerca aiuto economico e qualche rimedio al suo orgoglio di razza umiliato. Che questi sentimenti possano essere sfruttati da idioti fanatici, da negri anti-semiti o da negri affaristi, ciò non cambierà la loro base fondamentalmente progressista. Questo aspetto progressista non può in alcun modo essere confuso con il malcontento della piccola borghesia bianca scoraggiata che cerca rifugio nel fascismo. La reazione americana può finanziare e finanzierà probabilmente o incoraggerà alcuni di questi movimenti (Bilbo e Back to Africa) per alimentare il rancore. Ma i negri nella loro composizione sociale sono proletari, semi-proletari e contadini. Il corso generale della storia americana è tale che qualsiasi movimento fascista di portata nazionale (in qualunque modo lo si voglia travestire) sarà obbligato ad attaccare la lotta dei negri per l’uguaglianza”.

Grazie

Houria Bouteldja, membro del Parti des Indigènes de la République (PIR)

 Tradotto da Franco

Versione Francese
Versione inglese

1 Insulto razzista per indicare i magrebini , derivante dal termine omonimo volgare che significa « capretto ».

 

2 Autore di Jacobins Noirs, scrittore e militante politico, intellettuale, originario della colonia britannica di Trinità-e-Tobago nelle Antille.

 

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